Tre definizioni per capire il brand journalism

Il problema, quando si parla di brand journalism, è quel “brand”. Non per il significato, perché il termine è di uso comune anche in italiano, ma per il ruolo che gioca insieme con “journalism”: è giornalismo che parla di brand, o fatto da brand? E che cosa significa per un brand “fare giornalismo”?

Per rispondere a queste domande, ho scelto tre definizioni di brand journalism. Queste tre, tra le tante, per due motivi: gli autori sono professionisti (“esperti” sarebbe riduttivo) del brand journalism  – a cominciare da chi l’ha inventato – e le loro parole ne esprimono con precisione l’essenza. Cosa che, diceva Aristotele, è ciò che una definizione deve fare.

Raccontare un mondo

 Il brand journalism è la cronaca degli eventi che accadono nel mondo di un brand, attraverso i giorni e gli anni. E’ così che creiamo per il brand un reale valore percepito dal cliente.”  – Larry Light

Larry Light ha coniato l’espressione brand journalism nel 2004, quando rivoluzionò la strategia di marketing di McDonald’s, all’epoca in piena crisi di identità. La soluzione di Light fu quella di scegliere il giornalismo come strumento di comunicazione per raccontare il brand in modo interessante e coinvolgente per il pubblico. La sua definizione è stata la prima ed è probabilmente tuttora la più nota.

Tre sono i termini cruciali usati da Light:

cronaca: il brand journalism è il racconto temporale (“cronaca” deriva dal greco chrónos, tempo) di eventi, fatti, storie di cui il brand è  testimone, più che protagonista;
mondo:  il brand non parla di se stesso, ma del suo mondo, dello sfaccettato universo in cui opera e in cui interagisce con il suo pubblico;
valore: il brand non si fa pubblicità, né vende i suoi prodotti, ma produce valore per il suo pubblico, perché risponde a esigenze specifiche: informare, raccontare, divertire, educare.

Come ha raccontato Light in un articolo per il Journal of Brand Strategy, il punto di partenza fu una sorta di rivoluzione copernicana nei confronti del marketing tradizionale, che si basava sul concetto di un unico messaggio rivolto indistintamente dal brand a tutti i consumatori.
Light ribaltò questa visione: in un mondo mobile e digitale, in cui la comunicazione si fonda sulla co-creazione, sulla condivisione e sul coinvolgimento, non si può pensare di comunicare in modo standard con consumatori che hanno caratteristiche ed esigenze differenti; lo stesso brand non è una realtà monolitica, ma un’idea complessa e multidimensionale.

Per comunicare questo universo sfaccettato, Light scelse l’approccio giornalistico, prendendo come modello i quotidiani e i periodici. Un giornale è organizzato in diverse sezioni e contiene una serie di notizie rivolte ai diversi interessi dei lettori; allo stesso modo, la comunicazione aziendale deve strutturarsi attraverso una varietà di argomenti e di messaggi che attirino pubblici differenti, diventando il “giornale”, la “cronaca” del mondo del brand, ricca di informazioni e notizie in grado di interessare e coinvolgere un’audience variegata e multiforme.
Per mettere in pratica il nuovo approccio, Light adottò la regola fondamentale del giornalismo, quella delle 5 W: una notizia deve rispondere alle domande who, what, where, when e why. In questo modo, riuscì a definire i diversi tipi di consumatori e le loro specifiche esigenze e a costruire quella “cronaca” che trasformò radicalmente l’immagine di  McDonald’s e il suo rapporto con il pubblico.

Pensare (e agire) da giornalisti

Il brand journalism è scoprire notizie e creare contenuti giornalistici per conto di un brand.– Lisa Arledge Powell

Lisa Arledge Powell dà una definizione che suona come quella stessa del giornalismo: “scoprire notizie” (e, ovviamente, raccontarle) è l’essenza del mestiere di giornalista. Sembra quindi ovvia la seconda parte della definizione:  brand journalism è creare per un brand contenuti giornalistici.
In realtà, non c’è nulla di scontato. L’aggettivo è fondamentale, perché non parliamo di generico content, ma di notizie; non di marketing, di pubblicità o di comunicazione istituzionale, ma di giornalismo.

E’ una scelta che richiede un cambio di mentalità: think like a journalist, pensa da giornalista. Significa modificare la prospettiva della comunicazione aziendale, come già aveva sottolineato Larry Light, e di conseguenza applicare concretamente i principi e le tecniche del giornalismo.
MediaSource, fondata da Lisa Arledge, elenca le tre caratteristiche fondamentali dei contenuti di brand journalism:

  • devono essere notizie, cioè informazioni rilevanti per il pubblico del brand,
  • quindi focalizzate sull’audience, sui suoi interessi ed esigenze, invece che sugli obiettivi del brand,
  • e non (o il meno possibile) brandizzate: il brand journalism non parla del brand, fa informazione per conto del brand.

Pensare e agire da giornalisti comporta tre implicazioni fondamentali:

le aziende diventano esse stesse dei media: “every company is a media company”, come diceva Tom Foremski già una decina di anni fa, si trasformano in editori e pubblicano magazine digitali che contengono approfondimenti e inchieste giornalistiche;
–  le aziende hanno quindi bisogno di competenze specifiche, editoriali e giornalistiche: negli ultimi dieci anni, molti giornalisti hanno lasciato la carta stampata, le agenzie di stampa, la tv per creare e dirigere redazioni aziendali;
non hanno invece più bisogno dei media tradizionali: il brand, che prima puntava ad “andare sui giornali” per acquisire visibilità presso il pubblico, può ora diventare esso stesso un mezzo di informazione autorevole e ottenere credibilità non solo presso la propria audience, ma anche nei confronti degli stessi media.

Coinvolgere e rispettare il pubblico

Il brand journalism è il contenuto ricco e denso di significato che collega il pubblico con il brand.”  – Phoebe Chongchua

I giornalisti lo sanno: il padrone è (o dovrebbe essere) il lettore. La stessa regola aurea vale anche per il brand journalism, che, come sottolinea Phoebe Chongchua, è lo strumento con cui il brand può costruire una relazione significativa con la sua audience.
Connettersi con il pubblico e saperlo coinvolgere è tutt’altro che semplice. Brand e consumatori vivono in un mondo iperconnesso e sovraccarico di informazioni, in cui la soglia di attenzione ai messaggi è sempre più ridotta e la sfida sui contenuti sempre più incalzante.
La logica del brand journalism è la stessa del giornalismo: offrire un’informazione completa e corretta. Il contenuto “ricco e denso di significato” di cui parla Phoebe Chonghua si fonda sulla rilevanza e sulla credibilità, che permettono al brand di instaurare con il pubblico un rapporto di valore. Questo approccio alla comunicazione mette in gioco non solo le tecniche e il linguaggio del giornalismo, ma anche la deontologia, che assume un ruolo imprescindibile nell’informazione e autorevole: significa rispettare le regole e, soprattutto, rispettare il pubblico.

Una scelta di fondo

Dalle tre definizioni emerge con chiarezza una prima risposta alla domanda iniziale: il brand journalism è giornalismo fatto da un brand, che applica i principi, le regole, le tecniche giornalistiche alla propria comunicazione.
Come questo venga poi messo in pratica – con tutte le difficoltà che comporta – è importante, ma non è l’aspetto principale. Ciò che più conta è la scelta di fondo che compie l’azienda: diventare una media company, pensare come giornalisti significa cambiare il proprio punto di vista, prima ancora che le proprie azioni comunicative. Come afferma Steve Armenti in un suo articolo su The Content Standard, “il brand journalism non è un altro strumento o un’altra tattica di marketing, è una mentalità. E’ uno sforzo consapevole verso il cambiamento.

Marialetizia Mele
L’immagine di apertura è di Mr Cup / Fabien Barral su Unsplash.



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