Come rendere i contenuti B2B interessanti e autorevoli

Noiosi, pesanti, autoreferenziali. Sono gli aggettivi più frequenti quando si parla di contenuti B2B, tanto che i marketer anglosassoni già da tempo hanno ribattezzato ironicamente il business-to-business in bland-to-boring, “da piatto a noioso”. Una definizione che sembrerebbe tuttavia smentita dalla recente ricerca del Content Marketing Institute sul settore B2B: quasi 2 aziende su 3, il 62%, affermano che nell’ultimo anno il proprio content marketing è stato più efficace rispetto all’anno precedente e attribuiscono questo successo soprattutto alla creazione di contenuti di alta qualità e allo sviluppo o al miglioramento della strategia.

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Niente più noia, dunque? Non proprio. Perché un conto è riconoscere l’importanza del content marketing, un altro è creare e distribuire contenuti capaci di interessare e coinvolgere il proprio pubblico.
A Ignite 2017, la conferenza sul marketing B2B che si è svolta nel luglio 2017 a Londra, una delle parole ricorrenti è stata “creatività”: segno che è qualcosa che ancora manca e di cui non si può più fare a meno, nemmeno nel mondo business-to-business. La “scomoda verità”, come la chiama Brian Macreadie, uno dei relatori di Ignite 2017, è che ogni azienda B2B ha molti concorrenti che propongono gli stessi prodotti o servizi e che adottano le stesse strategie di content marketing: la conseguenza è un rumore di fondo indifferenziato che il pubblico non trova utile e che finisce per ignorare. E quel sottofondo indistinto è fatto di contenuti uguali a mille altri, che non raccontano, non interessano, non coinvolgono. In due parole, piatti e noiosi.

I tre problemi dei contenuti B2B e le richieste dei buyer

Che cosa rende i contenuti B2B così poco interessanti? I motivi ricorrenti sono soprattutto tre:

  1. sono autoreferenziali: parlano solo dell’azienda e dei suoi prodotti, spesso con descrizioni lunghe e ripetitive;
  2. usano un linguaggio “aziendalese”: le imprese sono sempre “leader di settore” che offrono “servizi a 360 gradi” e “puntano all’eccellenza”, ma in realtà non comunicano nulla;
  3. sono generici: spesso ripropongono documenti e materiali commerciali (brochure, presentazioni, schede prodotto) in modo indifferenziato, senza strutturare messaggi specifici per i diversi tipi di pubblico.

In questo modo, oltre che noiosi e pesanti, i contenuti B2B diventano inefficaci, perché non creano alcun valore: sono focalizzati sull’azienda e non sul cliente, che quindi non ottiene informazioni utili per le sue esigenze; l’azienda stessa non riesce a distinguersi dai concorrenti e quindi non può porsi come interlocutore autorevole nei confronti del cliente.

Basterebbe invece seguire le parole di Seth Godin: “Il marketing business-to-business è solo marketing rivolto a consumatori i cui acquisti vengono pagati da un’azienda.” Spesso le imprese B2B considerano i propri clienti solo come aziende, mentre dovrebbero ricordare di aver a che fare con persone, che non solo sono consumatori, ma sono anche più esigenti rispetto al mondo B2C.

Come emerge dall’indagine 2017 Content Preferences Survey di Demand Gen, i buyer B2B hanno sempre meno tempo a disposizione e chiedono contenuti che li aiutino a prendere le decisioni giuste per i loro acquisti:

– più dati e ricerche a supporto dei contenuti
– più analisi comparative del mercato
– più approfondimenti e opinioni di esperti e analisti del proprio settore

I risultati del sondaggio tra i buyer delineano con chiarezza il perfetto contenuto B2B: meno messaggi commerciali e opinioni aziendali, più fatti e informazioni attendibili.

La soluzione del brand journalism: contenuti B2B utili, consistenti, autorevoli

Anche nel B2B, dunque, l’obiettivo dei contenuti non deve essere quello di vendere, ma di posizionare l’azienda come fonte credibile di informazione completa e affidabile, per aumentare non il fatturato, ma la brand awareness, la notorietà e la reputazione dell’azienda. E il professionista ideale per ottenere questo risultato è il brand journalist.

Un brand journalist è un professionista che utilizza i principi e le tecniche del giornalismo per trasformare i contenuti aziendali in una fonte di informazione interessante e affidabile per il pubblico. Il brand journalist aiuta l’azienda ad attivare il media mindset, la mentalità giornalistica, che come ci ha insegnato Tom Foremski, permette a ogni impresa di diventare una media company, di fare informazione parlando direttamente al proprio pubblico.

Un brand journalist sa:

cercare le notizie, la storia inedita o un nuovo punto di vista da raccontare, anche nei documenti istituzionali o quando l’azienda sostiene di “non avere niente da dire”: un giornalista scrivere per i lettori e sa quindi trovare argomenti per suscitare l’interesse del pubblico;

andare in profondità attraverso ricerche, analisi, interviste anche all’interno dell’azienda, per ottenere le informazioni che il lettore vuole sapere: sa dunque rispondere alle esigenze del pubblico;

trovare fonti attendibili  per verificare ogni informazione e produrre contenuti affidabili e non promozionali: sa quindi garantire al pubblico autorevolezza e credibilità;

scrivere contenuti di qualità nella forma e nel contenuto, con un linguaggio chiaro e semplice, senza gergo aziendale e tecnicismi, elaborando notizie, storie, dati, opinioni in modo professionale e corretto: è capace quindi di creare valore per il pubblico.

Un brand journalist sa creare contenuti utili, perché pensati e scritti per il pubblico e le sue esigenze; consistenti, perché approfonditi e ricchi di informazioni; autorevoli, perché verificati e sostenuti da fonti credibili. Esattamente ciò che serve a un’azienda B2B per interessare e coinvolgere i suoi clienti.

Tre esempi di successo nel brand journalism B2B

Che la mentalità e le tecniche giornalistiche siano adatte al mondo B2B lo testimonia il più longevo esempio di brand journalism, The Furrow, la rivista creata nel 1837 da John Deere per gli agricoltori: tuttora è stampata da Deere & Company, uno dei leader mondiali nel settore delle macchine agricole, e letta da due milioni di persone in tutto il mondo.

Anche in tempi recenti sono numerose le aziende B2B che scelgono il brand journalism per comunicare con i propri clienti. Ecco tre esempi di imprese molto diverse tra loro per settore, attività e dimensione, accomunate dall’aver realizzato un efficace progetto di brand journalism.

1. American Express: informazione pratica e autorevole

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 OPEN Forum è la dimostrazione che American Express ha fatto propria la lezione di Seth Godin: anche gli imprenditori sono consumatori. Nato come community per le piccole aziende, OPEN Forum è diventato presto, come si legge sul sito, un luogo di “conoscenza, ispirazione e connessioni per aiutarti a fare business”.
E per aiutare i piccoli imprenditori, ai quali il sito è dedicato, American Express offre un’informazione molto ampia e approfondita, che tocca tutti i campi di interesse dei suoi clienti: gli articoli spaziano dalla stesura di un business plan ai consigli per incrementare le vendite, dalle strategie di content marketing a come migliorare l’ambiente di lavoro.
Le regole fondamentali, per American Express, sono due: i contenuti devono essere utili, rispondere alle esigenze concrete che i piccoli imprenditori affrontano ogni giorno nella gestione della loro attività; e devono essere affidabili, il che porta spesso a far scrivere esperti esterni all’azienda. Il motivo lo spiega Mary Ann Fitzmaurice Reilly, ora Global Brand Management di American Express, che per alcuni anni ha guidato le strategie di marketing di OPEN: “Molti brand fanno scrivere i loro dipendenti, ma questa strategia spesso porta solo a ottenere contenuti brandizzati e non credibili. American Express ha imparato che l’unico modo per affermare la propria autorevolezza è di coinvolgere gli esperti del settore.”

2. UPS: parlare a ogni cliente

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 UPS è uno dei più grandi spedizionieri sul mercato mondiale, ma il suo sito di brand journalism, Longitudes, non si occupa solo di logistica: anzi, spazia dagli abiti stampati in 3D alle mamme imprenditriciLongitudes si propone infatti come spazio di approfondimento e di dibattito sui temi e le tendenze dell’economia globale.
Oltre a temi generali come l’innovazione o la sostenibilità, Longitudes  ha una sezione suddivisa in diversi settori industriali: aerospaziale, automobilistico, e-commerce, sanità e manifatturiero. Sono evidentemente le industrie che più utilizzano i servizi di UPS e che l’azienda vuole interessare e coinvolgere.  UPS quindi si rivolge non solo all’insieme di tutto il suo pubblico, con articoli di interesse trasversale, ma anche a ogni singolo segmento della sua clientela, attraverso contenuti specifici per ogni settore e mirati a ogni nicchia di pubblico: per esempio, le auto che si guidano da solecome saranno le cure mediche nel 2030. Con Longitudes, UPS offre un’informazione focalizzata sui diversi interessi del suo pubblico.

3. Basecamp: storytelling giornalistico ed etico

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 Nella descrizione di Forbes, che ha inserito Basecamp tra gli Small Giants 2017, le 25 migliori piccole imprese statunitensi, spicca il fatto che il CEO Jason Fried ha rifiutato più di 100 offerte di investitori, perché preferisce una crescita costante e controllata e “la cultura della piccola azienda”.
Basecamp, fondata nel 1999 a Chicago, produce software per aziende, ha 25 dipendenti e fattura 25 milioni di dollari ed è quindi di tutt’altre dimensioni rispetto ad American Express e a UPS.
Eppure, ha dato vita a uno dei più interessanti esperimenti di brand journalism, The Distance. Il primo aspetto insolito è la forma: The Distance è una serie di podcast, di cui tuttavia è disponibile anche la trascrizione integrale, per chi preferisce leggere. Il secondo aspetto interessante è il contenuto: i podcast raccontano storie di imprese attive da almeno 25 anni, “storie umane che mettono in luce la gioia e gli sforzi di costruire qualcosa che duri”, spiegano.
Per cercare queste storie di piccoli, ma tenaci imprenditori e raccontarle in forma di intervista, Basecamp ha scelto una giornalista, Wailin Wong, ex reporter delle pagine economiche del Chicago Tribune, affidandosi alla sua capacità giornalistica di scovare notizie, scoprire personaggi, raccontare storie: per esempio, quella del più antico produttore di biciclette degli Stati Uniti, o di un negozio di alimentari diventato un’attrazione turistica.
La redazione è piccola: con la giornalista lavorano solo un produttore e un illustratore, a dimostrazione che non servono grandi investimenti per fare un ottimo brand journalism. The Distance ci tiene a precisare che è il team a decidere come scegliere le storie, come raccontarle e presentarle, riconoscendo ai tre professionisti una completa autonomia editoriale, come dovrebbe essere in qualsiasi progetto giornalistico. Non solo: il progetto rispetta anche l’etica giornalistica, perché non racconta mai storie di clienti di Basecamp. Una scelta di correttezza e trasparenza che rispetta il lettore ed è una garanzia di credibilità.

Questi tre esempi dimostrano che i contenuti B2B possono essere tutt’altro che noiosi: basta avere il media mindset e i giusti professionisti per fare un vero ed efficace brand journalism.

Marialetizia Mele
L’immagine di apertura è di Olu Eletu su Unsplash.
Una versione in inglese di questo articolo è apparsa su Prowly Magazine.



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